
VELIA SACCHI
"Io non sto a guardare"
Vita, opere e memorie di una donna del XX secolo

La famiglia Sacchi

Velia a 16 anni


Pietro Sacchi e Corsiera Cavallina
ADOLESCENZA
La mia adolescenza era già iniziata in un certo senso a 10 anni, ma credo che si possa definire più completamente il suo inizio con un episodio che si verificò nella mia famiglia quando ero fra i 12 e i 13 anni. Stavo cercando faticosamente di conciliare la mia vita interna con quella esterna. Qualche volta avevo pensato alla religione come ad un modo per darsi comodamente una regola, di cui sentivo il bisogno, ma non mi ero mai soffermata a lungo su questa idea.
Un giorno mio padre decise che l’ateismo di casa non era più confacente con le necessità di relazioni sociali, inerenti al suo lavoro e a quello di mia madre e combinò, all’insaputa di noi ragazzi, d’accordo con le autorità ecclesiastiche, la nostra conversione ufficiale alla chiesa cattolica.
Ci svegliarono alle 5 di mattina e portarono in macchina me e mio fratello a Milano, dove, in una piccola chiesa, alla presenza del vescovo, monsignor Bernareggi (me lo ricordo ancora!), un prete mi prese da parte e mi disse:” Certo che tu ne hai fatti di peccati con la tua faccia d’angelo. Io comunque ti assolvo”. Era la confessione. Poi ci fu subito la comunione e la cresima e, per papà e mamma, il matrimonio religioso, giacché si erano sposati solo in municipio. Poi andammo tutti in sagrestia dove ci avevano preparato una colazione di caffè e latte con “veneziane”. Il vescovo concluse la cerimonia con un discorsetto sulla necessità di una conversione sincera. Anche se non lo era al momento, poteva diventarlo, disse. Questo concetto penetrò profondamente nel mio animo. Sapevo bene quali fossero le ragioni di semplice opportunismo di mio padre. Erano anni in cui sembrava che il fascismo dovesse governare per sempre, ma io ne provavo una cocente vergogna. In quella frase del vescovo scorsi una via di salvezza, un riscatto da quello che i miei giovani anni consideravano un sopruso intollerabile. Cominciai a frequentare certi miei compagni di scuola evangelici, la loro chiese e le loro riunioni, allora l’unica forma di vita sociale organizzata all’infuori di quelle fasciste e cattoliche. Amavo i loro salmi, le loro passeggiate in campagna, il rapporto di scambio intellettuale col pastore.
A scuola, sempre più svogliata, accumulavo voti stranamente alti nelle materie letterarie e altrettanto bassi in storia e geografia. Appena cominciavo a studiare quei dati, un insopportabile tedio mi prendeva, col sospetto, rosicante e continuo, ma respinto come pazzesco, che tutto fosse una montatura di ben articolate bugie ed inganni, con fini che mi sfuggivano, ma che sentivo oscuramente contro di me. Nei lunghi momenti di noia nel mio banco tutto intagliato e cesellato, componevo piccole poesie a volte serie e a volte scherzose. Un giorno le compagne mi commissionarono un lavoro. Il mio primo lavoro su commissione. Era giunto da poco a Bergamo un professore di ginnastica che ci conduceva a pattinare sul campo di pattinaggio al lago di Spinone. Queste gite scolastiche erano un gran divertimento. Mi piaceva pattinare, ma anche osservare le acrobazie degli altri, tutti più bravi di me. Le compagne dunque mi commissionarono una poesia sul maestro e io non ebbi difficoltà a scrivere una filastrocca, corredata di disegni, in cui lo descrivevo a volteggiare con le sue belle, finché cadeva sul ghiaccio che si spezzava sotto ai suoi piedi, provocando la fuga di tutti. La poesia piacque e io me la portai a casa, dimenticandola nella tasca del paltò. Il giorno dopo mi fecero il “Processo”. Mio padre riunì la famiglia con grande solennità, fece un discorso con parole che riservava alle grandi occasioni, per dire con accenti sarcastici e accusatori che aveva preso la decisione irrevocabile di sospendermi dalla scuola e di isolarmi in casa per sottrarmi alle cattive compagnie. Mia mamma piangeva a calde lacrime come se fosse successa una grande disgrazia e mio fratello aveva quell’aria che imparai a conoscere bene, tra il soddisfatto e il preoccupato. Ancora oggi non riesco a darmi una spiegazione di questo fatto che precipitò la nostra vita familiare e i miei rapporti con loro in un abisso di incomprensione. La poesiola era quanto di più innocente si potesse immaginare; allora il gergo studentesco era ben lontano dal turpiloquio liberatore dei nostri giorni. Le immagini erano soprattutto usate per far ridere.
,Mio padre era molto buono, ma debole e abbarbicato al suo ruolo di capofamiglia e di maschio, tuttavia ben lontano dalla tirannica pratica familiare che vedevo in alcune famiglie di miei compagni di scuola. Mia madre, pittrice, fotografa era molto diversa dallo stereotipo corrente delle madri di famiglia. Mio padre aveva grande stima di lei e del suo lavoro, per cui il suo gesto mi risultava inspiegabile e lo è ancora oggi. Anni dopo trovai fra le carte di mio padre un libretto intitolato “L’educazione delle fanciulle” dell’istituto Hermes, un istituto di cosmesi milanese, che negli anni 38-40 pubblicò una serie di libriccini in cui si insegnavano le cose più disparate: come ridursi il naso, come accrescere la statura, volere è potere ecc. Si raccomandava anche ai padri di famiglia di salvare sempre e innanzi tutto il proprio ruolo di “colui che comanda” e nel caso di figliole che osino “parlare coi maschi”, uscendo dal doveroso apartheid, sia a scuola che in altre occasioni, l’unico rimedio era senza indugio (indugio pericolosissimo), l’assoluto isolamento da tutti i coetanei. Il mio non durò a lungo. Capii immediatamente come renderlo gravoso e insopportabile agli altri. Mia madre, inoltre, non era soddisfatta del suo ruolo di carceriera, e a contatto quotidiano con le necessità di movimento della vita quotidiana, finì col farlo cessare nel giro di dieci giorni. Ma il danno fatto e la lesione dei nostri rapporti fu incalcolabile.
Ormai sapevo o credevo di sapere, che nessun dialogo era possibile, che niente del mio io doveva trapelare, che tutto quello che facevo doveva essere nascosto, perché per misteriose ragioni “loro tre” erano uniti contro di me. Appena la situazione si normalizzò in parte, provvidi a costruire in me stessa e in una cerchia ristrettissima di amici una sorta di legame che aveva molto a che fare con una setta. Ogni cospirazione mi parve lecita. L’anno scolastico era irrimediabilmente perduto, mio padre mi iscrisse ad una scuola per corrispondenza, che mi iniziò ai piaceri fino ad allora ignoti dell’ozio mascherato. Con i miei quaderni-album e i testi che la scuola mi mandava, passavo intere giornate su di una sedia, i piedi appoggiati al calorifero, a fantasticare storie erotiche, che oggi mi sembrano orrende. Ogni tanto guardavo svogliata i quaderni bianchi e compilavo le poche frasi necessarie. Poi disegnavo per ore e ore disegni geometrici, che diventavano sempre più complessi e giganteschi, con tanto di compassi, righelli e misurazioni per fantastici progetti di scale che non finivano mai. Per ore, (mi alzavo abitualmente alle 5), accumulavo nel cassetto fogli di vario formato, con scale e scaloni che andavano in tutte le direzioni, scoprendo le gioie della prospettiva e del calcolo.
La grande casa in cui vivevo era una festa di lavoro per tutti. Mia madre cominciava il lavoro nel suo studio e ne usciva solo per i pasti. Per ore si sentiva il rumore del suo “sgarzino” che risuonava secco sulle lastre fotografiche per il ritocco, allora indispensabile.
In casa allora non c’era il telefono. Solo un citofono che collegava l’appartamento con lo studio fotografico di mio padre che era al pianterreno. Una radio monumentale veniva accesa all’ora dei pasti, (12.30 pranzo, 19.30 cena), ore in cui tutti dovevamo essere presenti. Appena possibile, circa all’una, mi ritiravo nella mia stanza, nel mio silenzio, nelle mie orge di fantasia e di disegni.
Ancora oggi mi è impossibile conciliare l’immagine stereotipata di mio padre (quello che rovinò il mio iter scolastico e il mio rapporto con i genitori), con l’altra immagine che vi si sovrappone senza mai combaciare, di un uomo buono e amoroso, pieno di sensibilità e di tenerezza, che da bambina mi difendeva dall’aggressività fraterna e dall’inconscia preferenza di mia madre per mio fratello.
Fu questo padre, che pure era lo stesso del Processo, che un giorno mi condusse dallo scultore Remuzzi, noto a Bergamo come il più abile tecnicamente e ottimo maestro, e mi affidò a lui come aiuto allieva. Lo stesso padre che poi mi condusse all’Accademia Carrara di Belle Arti e mi iscrisse nell’unico modo allora possibile, cioè come allieva auditrice (le donne non erano ammesse. Eravamo nel 1936). Lo stesso che si rallegrava fino all’emozione dei miei primi successi professionali.