
VELIA SACCHI
"Io non sto a guardare"
Vita, opere e memorie di una donna del XX secolo
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Alda Ghisleni (Autoritratto)

Gli Amanti (1947/48)
FAMIGLIA, AMICI E PARTITO (1963)
Che abisso ho misurato quest’anno a Natale! Ricordavo bene la distanza sempre maggiore fra me e la mia famiglia. Ma la lontananza, dopo che avevo raggiunto la mia vittoria, una vita su altre basi e altro ambiente, che aveva smussato certi miei vecchi giudizi, faceva sembrare la frattura definitiva.
Mi è stato detto esplicitamente che avrebbero tollerato la mia vita di sinistra se avessi avuto successo. Si era ventilata una mia possibile candidatura in parlamento, poi finita nel nulla.
Sono state dette cose troppo offensive nei riguardi di miei amici carissimi e delle scelte sociali e politiche da me fatte, perché potessi continuare allegramente a frequentarli. Che aria irrespirabile! Me ne sono accorta appena uscita da lì, come da una stanza puzzolente all’aria aperta.
I miei amici di Milano, con tutti i loro limiti, il loro schematismo e settarismo, mi sono apparsi belli, puliti, come una faccia di bambino confrontata con le rughe dei vecchi.
E della mia amica Bibi (Alda Ghisleni), ha suscitato la loro scandalizzata riprovazione, perché sincera, io invece ricorderò sempre quello che mi ha insegnato, fino alla sua morte. Una vita ricca di amicizie e di interessi, un’onestà intellettuale rara, non poteva che culminare così in una morte socratica. Eppure è stata per me una sorpresa. Era da poco morto mio padre, solo, senza un amico, con pochi affetti convenzionali, ed io avevo confuso questa triste, orribile solitudine con la tristezza stessa della morte.
Quando mi hanno chiamato a Bergamo perché la morte della Bibi sembrava imminente, mi sono sentita sopraffatta dallo sconforto. Mi resi conto appena arrivata, che anche la morte ha una fisionomia diversa a seconda di come si è vissuto. Ecco, ho pensato, se potessi scegliere, vorrei morire così anch’io. Stava lì, nel suo letto, con la morte già dentro di lei, gliela si vedeva in faccia, nelle mani, nella voce. Ma che conforto con gli amici: erano tutti lì a curarla, a difenderla, a incoraggiarla.
Mai come in quel momento ho capito l’errore madornale che fanno tanti nel giudicare gli uomini e soprattutto le donne, dal tipo di vita sessuale conducono. Esuberante e schietta, la Bibi non aveva mai nascosto le sue avventurose vicende amorose, rare e profonde, che scandalizzavano perché da anni non si rivolgevano più verso il sesso opposto.
La fantasia dei benpensanti si scatenava al punto da attribuirle dissoluzione e orge, ben lontane dalla verità della sua vita, tutto sommato molto austera. Ma nella abnegazione della sua amica Anna, nella sua gentilezza e nella sua capacità intelligente di confortarla e amarla, non c’era più niente che il più benpensante dei benpensanti potesse misconoscere. Una vera amicizia brillava talmente da attirare altra amicizia e amore. Quanta gente amica in quella casa. Ho sentito in loro la forza dell’autenticità e mi sono sentita riconoscente per quell’insegnamento, che è stato: 1) superiorità dell’autenticità sul conformismo. 2) l’importanza dell’amicizia, la sua superiorità sui rapporti non elettivi, cioè la parentela. 3) Le possibilità di sviluppo di una personalità che si sottrae al conformismo, enormemente superiori a quelle di chi si lascia invischiare.
CONSIDERAZIONI SULL'OMOSESSUALITÀ FEMMINILE
La lesbica, per effetto della sua “degenerazione”, viene a porsi in una posizione, oggi eminentemente progressiva, di persona- soggetto attivo.
Il mito masochistico che una società maschile ha imposto alle donne, viene rinnegato nell’atto stesso di colei, che si pone in posizione di ricerca, (cerca, trova, fa). Ruolo attivo.
Oggi questo ruolo non è più strettamente riservato ai maschi. I molti e importanti cambiamenti nella produzione e nell’economia dei paesi industrializzati, ha relegato l’antico mito in una posizione meno generale e assoluta.
Perciò ci sono anche molte donne eterosessuali che, lavorando ed agendo, si affermano come persone-soggetto. La domma omosessuale arriva a questo per altre vie, oltre a quella, più imperiosa per lei, del lavoro retribuito. E, armonizzando la sua sessualità (che lascia certamente maggior spazio alla parte attiva), riesce a volte più rapidamente e totalmente a realizzarsi, pur cozzando in ostacoli esterni maggiori delle altre donne.
Resta la sua mancata integrazione nella società, che non riconosce questo tipo di sessualità e la condanna. Tuttavia, questo inconveniente non è ignorato dalle altre donne, le quali, per sentirsi accettate e integrate, devono sottoporsi a corvée, che le privano, per un altro verso, delle loro possibilità di utilizzare liberamente il proprio tempo e di sviluppare le loro capacità (maternità coatte, studi proibiti, stato economico e giuridico delle donne sposate, ecc.).
Integrazione che si verifica solo a metà, giacché consente alle donne di “essere”, solo nel caso che rinuncino ad “essere” in un altro modo, (secondo i miti maschili che la società borghese e non solo borghese, ha reso universali e quindi anche femminili).
Non si può dire con questo che, in una società contraddittoria, come quella odierna,, l’unica possibilità di sviluppo che ha la donna, sia quella di imboccare la strada dell’omosessualità.
Si può però affermare che questo tipo di contraddizioni provoca certamente una spinta verso questo indirizzo sessuale e che, tutto sommato, chi vi si trovi impegnato in modo autentico (rispondente, cioè, alle sue più vere esigenze e ai suoi fini), farebbe bene ad assumersene totalmente la condizione.
ESSERE ATTIVI
L’essere attivo non è solo, come potrebbe sembrare, un’espressione dello spirito di iniziativa. E, invece, lo stabilirsi di un’armonia fra le esigenze del tutto e quelle dell’individuo. Da quando la donna è stata dichiarata elemento passivo, lo è diventata, perché non c’era da parte della società una domanda diversa.
Oggi, essendo chiara a molte donne la coscienza di dovere e poter appartenere legittimamente al tutto, è necessario che forzino il loro modo di essere e si abituino a prendere l’iniziativa, perché, la società non chiede alle donne, quello che pretende dagli uomini. L’uomo pieno di iniziativa, insomma, è colui che, più degli altri, si sente parte, anzi componente essenziale di un universo e scorge nel suo attivismo un tentativo di esserlo ancora di più e meglio.
La donna piena di iniziativa, invece, è quella che meglio delle altre vede la sua non appartenenza all’universo, e ritiene la sua attività l’unico modo per affermarsi come parte di un tutto. Riesce a superare l’indifferenza, è capace di introdursi prepotentemente e non richiesta in un dialogo altrui, dribbla i divieti, supera le remore caratteriali. In genere è considerata una rompiscatole dal “cattivo carattere”. Ma senza quel cattivo carattere non sarebbero mai arrivate ad occupare quei posti.
E’ stato così, seppure su di un altro piano, per la lotta di liberazione. Questa lotta, con le sue necessità di “guerra”, apriva alle donne spiragli di luce, possibilità, mai viste in tempo di pace, di “appartenere all’universale” a parità con gli uomini. Ma, allo stesso tempo, spesso la porta tornava a chiudersi sul loro naso.
Il Partito ti cerca (anche tu sei persona!), ti sostiene, i familiari non capiscono, perché sono borghesi, vorrebbero confinarti in casa, ma sanno che ormai è finita con l’angelo del focolare, ecc. Il Partito ti dà possibilità concrete, ti manda in un luogo di lavoro clandestino, ti dà la meravigliosa sensazione di esistere, uno stipendio come gli altri. Ed ecco che contemporaneamente sostiene che, in questo esercito così democratico, devi essere l’ausiliario, l’attendente, perché appartieni ad un’altra razza. O, peggio, ad un certo punto non ha più bisogno di te e tu non esisti più. Rimani senza possibilità concrete, senza lavoro e senza stipendio. Se hai il “cattivo carattere ”forse il lavoro ti rimane, ma lo stipendio è sempre quello dell’attendente.
Potrebbe trattarsi del così detto “complesso di inferiorità”. Non c’è niente da dire. Potrebbe essere benissimo la giusta definizione, diventare un malattia, un’ossessione, ma non ci si può far niente. Prendere atto delle realtà, opporsi alla propria fine, soli, o quasi, contro tutti, è l’unica cosa che si può fare, parlando della realtà nei termini che balzano evidenti agli occhi di chi vuole vedere. E non deve farmi paura se si parla di malattia e di complesso.
E’ per questo che cerco, trovo, denuncio e non esito a chiamare col suo nome questa realtà che mi esclude. Il diritto a partecipare bisogna prenderselo come si può. Bisogna organizzare la propria vita sulle esigenze del proprio lavoro, come insegna l’esperienza maschile, esigendo l’aiuto della famiglia, senza fare di essa il proprio scopo, ma dandole l’importanza che, in questo quadro, ha.