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Lo scultore Remuzzi
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Allievi e modelli Accademia Carrara 1940
I compagni dell'Accademia

GIOVINEZZA

Lo studio dello scultore era vasto e alto come una chiesa. A terra delle rotaie mi colpirono molto. Seppi poi, che servivano a trasportare con un carrello le sculture più grandi e pesanti. Lo scultore era un cinquantenne con grande esperienza tecnica. E riteneva che “il mestiere” fosse tutto. Da ciò il puntiglio di insegnare tutti i segreti del mestiere, dalla lavorazione del marmo, alla creta, al gesso e così via.

Ai miei occhi infantili questo maestro è sempre sembrato un vecchio potente, molto benevolo e originale nei modi.  Dopo le lezioni del ginnasio, le ore passate nel suo studio a maneggiare creta, gesso e modelli, accanto ad altri cinque allievi, erano talmente interessanti e ricche di scoperte, che le avrei volentieri aumentate.
Sentivo una spina nel cuore: la discrepanza tra ciò che capivo essere una seria preparazione culturale e tecnica e il motivo per cui i miei genitori mi ci avevano mandato. I termini della contraddizione non mi erano chiari, ma chiarissimi erano l’atteggiamento e i discorsi dei miei genitori che dicevano “ti mandiamo lì, a imparare quelle cose, non perché tu possa diventare una vera scultrice, ma semplicemente perché così, oltre a sviluppare qualche qualità ornamentale in più, occupi il tuo tempo in attesa di sposarti.
Andare allo studio del maestro dopo la scuola era la mia festa e la mia rivincita. Scolara mediocre del ginnasio, ero sempre in polemica col fratello più grande e con i genitori, ostile ad ingurgitare nozioni prefabbricate, ostinata nel voler ragionare, invisa ai professori, benché incline a prendermi formidabili cotte per la professoressa di italiano e latino, (mi pareva una eccezionale fata, che dispensava cultura ed emanava progresso).
Nello studio dello scultore Remuzzi mi sentivo placata. Umile e paziente mi prestavo e tutte le pratiche: prendere la creta dal deposito sotterraneo, metterla nelle macine a depurare, preparare gli scheletri per le statue, o la cassette per i bassorilievi, preparare i gesso per le forme, preparare le statue finite per la cottura.

Insomma, tutto ciò che costituiva la manovalanza del mestiere di scultore era per me una delizia, un piatto prelibato, una soddisfazione continua. Mi sembrava di imparare da ogni cosa, anche se la tecnica era faticosa, sentivo un continuo progresso e vedevo risultati immediati. Stavo in contatto con gli altri allievi, con la splendida e robusta modella e col maestro. “La materia” e “il vero” erano le sue parole preferite e ci faceva rifare puntigliosamente anche dieci o dodici volte uno studio di panneggio, al suono di queste due parole gridate e cadenzate in varie tonalità vocali, che costringevano a vedere quello che prima non si era visto.
Io, che al ginnasio passavo per svogliata e a casa per una cupa ribelle, allo studio ero ilare ed entusiasta, il maestro non smetteva di tessere le mie lodi, parificando il mio sesso, altrove sottoposto alle rigide regole dall’apartheid di provincia, con quello degli allievi maschi.

Fu il mio primo assaggio di vita di comunità, dove il razzismo sessuale era tenuto fuori dai nostri confini. Ricordo risate incontenibili un giorno in cui venne a farci visita un prete che dopo aver individuato faticosamente, attraverso la tuta e il gesso che ci ricopriva, l’evidente appartenenza al sesso femminile di due allieve, eclamò stupefatto in bergamasco valligiano:” Po’ a i fomne i spaciùga in de tera”?! (trad. “Perfino le femmine pasticciano con la terra!”)
Il futuro era allora bandito dalla mia mente. Il tempo che vivevo mi sembrava un’isola, paga com’ero dei miei progressi nella conoscenza di una tecnica e di un mondo meraviglioso.
Anche la mia educazione sessuale, cominciata precocemente, attraverso le strette maglie della ‘pruderie’ familiare, con punte incestuose e brevi amori scolastici, proseguiva a gonfie vele.
Il maestro partiva spesso per Milano, lasciando noi allievi e la modella padroni dello studio e del lavoro in corso. Erano giorni indimenticabili. Ci riunivamo tutti nello studio centrale, dove sui binari giganteggiavano le statue più grandi (il maestro era specializzato in monumenti), e lì ci mettevamo a cambiare i sessi delle statue, chiacchieravamo, intrecciavamo storie diverse, sempre con la basilare sensazione che tutto era possibile con gli altri al di fuori dello studio, ma che fra noi ci sarebbero state solo confidenza e chiarezza, come se un’istintiva norma endogamica ci guidasse. 
Man mano che la mia conoscenza del mestiere e del sesso progrediva, la mia inconsapevole famiglia, si rappresentava sempre più come un muro compatto, tendente a mantenermi sulla strada obbligata di un’unica meta: un marito, una casa, dei bambini.
Muro che io credevo di saltare, ignorandolo, e dedicandomi il più possibile allo studio a scuola. Ma l’illusione di possibili alternative si frantumava sempre quando si maturava qualche decisione. 

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