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Velia con il fratello Nestorio
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INFANZIA

Ciò che ricordo più vivamente della mia infanzia sono la felicità dei rapporti con la natura e con le bestie e l’infelicità dei rapporti con gli adulti.
La sensazione più viva che mi accompagnò fino all’adolescenza come un incubo fu quella di un fatto che credo non sia realmente accaduto. E’, almeno, molto improbabile.
Abitavamo col fratello, la mamma e il padre, al 3° piano di una casa popolare. Un ballatoio con la ringhiera univa tutti gli appartamenti di uno stesso piano. I nostri giochi si svolgevano lì. Io ricordo benissimo, come fosse vero, che mio fratello mi prese per i piedi e, spenzolandomi a testa in giù, fuori dalla ringhiera, minacciava di lasciarmi andare, se non facevo quello che voleva lui.
La disperazione, lo spavento, l’umiliazione furono tali che oggi, ipotizzando che quel fatto non sia realmente accaduto, devo credere che altre ragioni che abbiano causato questo scherzo dei miei sensi: cioè tutto un complesso stato di animosità e di inferiorità rispetto al fratello maggiore, che, del resto, si manifestò in moltissime occasioni della nostra vita comune.
Egli era un tipo semplice. Serio più di quanto non fossero i bambini della sua età, con una capacità naturale, di cui ha avuto sempre ammirazione e dispetto, di inserirsi nell’opinione comune e di accettarla come il giorno e la notte, senza alcun dramma visibile, traendone anzi, il maggior vantaggio contingente.
La nostra era una vita normale, come può esserlo quella di due nemici incarcerati insieme. Avevamo una stanza a due letti nella quale dormimmo fino all’ età di dieci anni. Egli mostrava un grande disprezzo per la donna e mostra di ritenere la mia inferiorità di sesso e di età, come una cosa del tutto naturale.
Una ribellione sorda e continua a questa manifestata concezione non mi lasciava un momento ed esplodeva continuamente in piccole e grosse manifestazioni di indipendenza e di rabbia, assai spesso inadeguate alla reale portata dell’offesa che le causavano, ma spiegabili dalla quantità di offese che il mio orgoglio doveva continuamente subire. Le immagini che si sono incise più profondamente nella mia mente sono quelle di me e lui, avvinghiati come bestie nemiche, lui con le mani alla mia gola, ingiungendomi qualcosa, (non ricordo cosa), con la certezza che sarei morta strozzata sì, ma senza cedere. Tragedie appariscenti non accaddero per puro caso.
Tutte le volte che il furore montava in me fino ad esplodere incontrollato, per una qualsiasi occasione, la vista mi si oscurava e l’ultima immagine di cui ero cosciente era quella di una figura nera e grande piena di canzonature e una piccola ricolma di rabbia, pronta ad avventarsi e ad uccidere. Niente poteva fermarmi in quei momenti e credo che mio fratello debba alla sua agilità e alla sua freddezza, molto più di quanto egli non credesse.
Disprezzava la mia compagnia sia nel gioco che nella conversazione e questa sensazione mi portò fin dai primi anni di cui ho memoria, a fuggire la sua. Dapprima con un desiderio represso assai sensibile, poi sempre meno dolorosamente.
Mi vestivo "da uomo" qualche volta, ma dovevo farlo di nascosto da mio padre, perché a quell’epoca diceva di non sopportare le donne in calzoni.
Mettevo dei calzoncini vecchi di mio fratello e uscivo per strada con una sensazione complessa, fatta di umiliazione e di rabbia, ma anche di speranza. Speravo forse che l’abito mi facesse sembrare ciò che non ero e che il senso delle superiorità degli altri su di me svanisse e allo stesso tempo mi sentivo umiliata di ricorrere a questo inganno.
Le mie rivincite me le prendevo con acre soddisfazione gettandomi, appena possibile, sulla scuola.
I primi anni di vita scolastica furono i più brillanti, certo anche per questa ragione.
In ogni cosa in cui potevo eccellere, il disegno, la plastica, la scuola, mi impegnavo a fondo e quando riuscivo a strappare più o meno evidentemente, il riconoscimento di una mia superiorità, allora sentivo una gioia strana, fatta di soddisfazione e di rimorso. 
Più crescevo, e più tutto quanto era manifestazione scomposta si andava attenuando.
Nella mia mente si andavano accumulando i perché senza una risposta e il primo grosso perché era: perché sono considerata inferiore senza esserlo? Cominciai a darmene una. Mio fratello mi odiava perché io non ero la sua vera sorella, ma una trovatella. Come un’idea così balzana mi fosse venuta non so; posso solo pensare all’influenza di certi racconti o fiabe, in cui riscontravo analoghe infelicità famigliari e vi verificavo la mia.
Benché balzana, questa idea mi diede una certa calma. Le manifestazioni avversarie non suscitavano più la cieca rabbia di prima, ma un misto di compassione e di dolore.

Ad aumentare il senso di ingiustizia, che permaneva vivissimo, contribuì molto l’atteggiamento di mia madre. Senza poter rendersi conto del cumulo di aggressività, sentimenti e passione che sedimentavano nell’animo mio, essa prendeva naturalmente posizione contro le mie intemperanze. Aveva la specialità di farmi andare completamente in bestia con frasi come: ”Lui è un maschio, tu non puoi, tu sei una femmina”. L’ingiustizia di questa concezione mi si ergeva allora davanti come un muro enorme e scuro, insuperabile, contro cui non mi restava che battere la testa, urlando di disperazione.
Le ragioni di tutto questo mi sfuggivano. Nella mia mente di bambina restava solo un’ingiustizia senza senso, di cui mia madre e mio fratello erano gli esponenti i difensori, i banditori, e io una vittima che si sentiva innocente di ogni colpa. L’unica colpa che la mia ridotta esperienza di fiabe e racconti mi potevo attribuire era quella di essere una trovatella. Ancora non sapevo quante sono le colpe che la società attribuisce ai suoi nati: nati neri, gialli, donne, poveri, ebrei, figli illegittimi.
Ma la mia solitudine si andava colmando sempre più di amicizie e parentele che mi davano squisiti piaceri, la cui intensità, solo raramente oggi riesco a riprovare.
Verso i 9 anni andai ad abitare con i miei in periferia, una di quelle villette circondate dai prati e da un minuscolo giardino. Quando il sole era calato mi immergevo nel palpito della campagna come se fosse il mio stesso palpito e le mie lacrime e l’umido dell’erba, i fiori del prato e le mie mani erano esattamente le stessa cosa. Conoscevo i fili d’erba e i fiori e gli insetti più di me stessa. Mi sentivo abbracciata dalla natura e protetta e, soprattutto, nella natura mi sentivo uguale.
Ricordo che fu allora che cominciai a sospettare che i valori dell’umanità in cui io vivevo non fossero valori reali. Spesso mi capitò di osservare quanto fosse più bello un miosotis di una gemma che vedevo nella vetrina di un gioielliere e che mia madre diceva costare una cifra enorme. La dalia era indubbiamente di gran lunga più bella di qualsiasi ornamento e la mia solidarietà con gli animali e la natura andava sviluppandosi in contrapposizione alla mia incapacità di capire gli uomini e alla sensazione di non essere amata.

Ad aumentare questo mio orientamento venne l’acquisto di un cane. Il villino era un po’ isolato e un cane da guardia ci voleva. Così dissero i miei. E da un vicino ci venne dato un cane siberiano. Mi dissero che era un lupo vero portato dalla Siberia da un cacciatore. Era un cucciolo e, come tutti i cuccioli, straordinariamente attraente. Io lo sentii subito fratello, nei suoi istinti, come i miei, subito repressi da randellate e castighi, nelle sue nostalgie, di notte ululava alla luna e io scendevo di nascosto in giardino e ululavo con lui. Lo sentivo fratello nella sua innocenza d’essere nato così e solidale con me nei suoi giochi e nei suoi bisogni, spesso irrefrenabili, di libertà.

Anche nelle antipatie eravamo affini e il giorno in cui morse una ragazza che si divertiva da mesi a stuzzicarlo, gioii come se il morso lo avessi dato io e ne diedi entusiasticamente l’annuncio in casa, ricevendo, come si può ben immaginare, la mia ennesima delusione. 
Il mondo della natura che io andava esplorando si presentava sempre più ricco, più meraviglioso, più interessante e soprattutto più amico e più giusto. Ora non piangevo più per l’ingiustizia. Mi sdraiavo sul prato a faccia in giù e aderendo tutta alla terra e assaporando a pieni polmoni l’odore buono, le dicevo: la mamma, sei tu. E sentivo confusamente che se c’era un mondo amico, in cui non erano i pregiudizi a governare, voleva dire che c’era qualcuno che sentiva come me, che non ero sola e, forse, nel mondo che ancora non conoscevo, c’erano amici anche fra gli uomini. Tutto questo non lo formulavo come pensiero, ma devo alla mia scoperta della natura, se la cupa disperazione in cui vivevo non mi portò a grandi eccessi e fu sempre contenuta dalla speranza di una vita diversa.
Una gran luce fu però, in questo periodo, la scoperta dell’amicizia con un essere umano. Una bambina, piccola e denutrita, compagna di scuola, cominciò a venire in casa per certi compiti ed io riscontravo in lei la mia stessa infelicità, me ne sentivo sempre più avvinta e la colmavo di regali e di gentilezze. Pensavo spesso che avrei potuto dormire con lei, se fosse stata mia sorella e questo sogno mi dava tanta felicità che restavo soddisfatta semplicemente portandola nella mia cameretta dove studiavo e dormivo, illudendomi di vivere con lei. Questa intimità con un essere umano sollevò o favorì il sorgere di nuovi problemi, nuove curiosità. Fino ad allora mi ero curata poco di sapere come ero fatta e ignoravo molte cose di me stessa. L’altro grosso interrogativo dell’infanzia: “Da dove veniamo?” l’avevo messo da parte rabbiosamente il giorno in cui, seppellendo l’unghia del pollice, fatta crescere lunghissima e con mille cure, e innaffiando la terra ogni giorno, per veder spuntare il bambino, come mi avevano promesso, scoprii, dalle risate di alcuni parenti, che era stato un inganno, una burla. Non avevo cessato di pensarci, ma in modo marginale e senza eccessiva curiosità. Con queste nuove amicizie la curiosità si risollevò potente. Avevo nove anni e un’esperienza sicura riguardo agli adulti. Non dovevo fidarmi di loro. All’amichetta confidai i miei dubbi e scoprii che anche lei ne aveva. Dalle nostre esperienze comuni traemmo la conclusione che bisognava scoprire questo mistero. 

Intanto, altri esseri umani si affacciavano alla mia vita ed io avevo per loro sentimenti curiosi. Nella casa operaia dove viveva la mia amica Gemma c'era una folla di ragazzini della mia stessa età, che avevano modi di fare e di parlare che dapprima mi incuriosirono, poi mi piacquero immensamente. Parlavano una specie di gergo e giocavano sì separati dalle bambine, ma spedendo loro in certo numero di messaggeri, incaricati di riferire le loro preferenze e la loro ammirazione per questa o per quella.

Io avevo di me un’opinione decisa. M’ero guardata spesso allo specchio e mi ritenevo assai brutta. Avevo dei gusti spiccati, decisi, ma assai diversi da quelli della maggioranza degli adulti e dei miei di oggi. Ricordo si essere stata per lungo tempo convintissima che la gambe più belle fossero quelle le cui cosce formassero un arco interno e guardavo con malinconia le mie piccole cosce dritte, classificate fra le orribili. Un’altra parte anatomica su cui avevo opinioni nettissime era il naso. Quello bello doveva essere, secondo me, sottilissimo e lungo, mentre lo specchio mi rimandava inesorabilmente l’immagine di una patata rotonda. E’ strano che questa mia appendice che oggi reputo fra le più normali, mi sembrasse allora enorme e, insieme ai capelli, fosse una delle fonti del senso di inferiorità che mi accompagnava. I capelli li vedevo quali erano, o almeno, quali mi appaiono anche oggi. Grossi oltre il normale e duri come setole, tagliati corti sulla fronte e sulle orecchie, mi facevano sentire un essere mostruoso, mi paragonavo a un palombaro con un casco scuro in testa e una patata in mezzo al viso. 
I tributi di ingenua galanteria dei ragazzetti mi spinsero a tentare una revisione delle mie convinzioni. Tornai a guardarmi allo specchio con minore severità, tuttavia non riuscivo a conciliare la mia opinione con quella che essi esprimevano. Vinta la prima diffidenza, provai ad esercitare un certo potere su di loro e constatai che molti non si comportavano come mio fratello, non disprezzavano il mio essere donna, così cominciai a servirmene largamente.

Benché tutt’altro che agile e già probabilmente miope, mi esercitai con tale ostinazione nei giochi più pericolosi e nel tiro a segno. Constatai con quanta facilità ci si può creare una fama falsa. Passavo infatti per una ragazzina vivace, turbolenta, amante dei giochi maschili, più abile di loro e senza ombra di paura. Li picchiavo e le pigliavo a pari merito. 
In realtà ero tutt’altra cosa, però riuscivo a mantenere la loro considerazione, grazie ad una continua sorveglianza su me stessa. Non volevo rinunciare alle dolcissime soddisfazioni, per tanto tempo negatemi, mostrandomi per quello che ero: paurosa delle immagini che la mia fantasia mi metteva spesso dinnanzi, dei pericoli in cui certe scalate di alberi, o certi fossati mi ponevano, e la noia mortale che provavo per certi giochi che consideravo stupidi, come il tiro a segno, nel quale tuttavia, mi esercitavo di nascosto per ore. 
La mia ipocrisia si raffinava di giorno in giorno e sento ancora il gusto di quell’inganno in cui traevo gli altri.
L’impalcatura si sfasciò però ai primi contatti con la forza bruta di certi impulsi che avevo ormai troppo introiettati per poterli simulare. La mia solidarietà col mondo animale e vegetale non era affatto diminuita e il giorno in cui vidi i ragazzi in crocchio attorno ad un catino pieno di scarabei bellissimi, intenti ad arrostirli per farli scoppiare, io mi sentii istantaneamente scarabeo e i rapporti con quei ragazzi mi apparvero in tutta la loro falsità e odiosità. Mi scagliai su di loro e li picchiai furiosamente e ciecamente.
Ad aggravare il mio isolamento si produsse un episodio che ebbe grande importanza, sebbene apparentemente comune. La mia amica Gemma che usava andare in chiesa come tutti gli altri bambini, mi annunciò un giorno che il confessore le aveva vietato di occuparsi dei problemi riguardanti la nostra nascita, nei quali avevamo fatto alcuni progressi e tratto già molte conclusioni (errate). Essa mi parve decisa ad obbedire e io, non riuscendo a capire il perché di tale divieto, decisi di continuare da sola.
La sera, nel prato, in mezzo alla musica dei grilli e della campagna mi creavo colloqui fantastici con gli esseri intorno a me, mi facevo accarezzare dall’erba, abbracciavo le piante e la terra e piangevo molto spesso senza darmene ragione, come una nuvola lascia cadere la sua acqua. Mi interrogavo, però inutilmente, sul problema che volevo risolvere. 

Si andava sviluppando fortemente in me l’amore della discussione. Contro l’ingiustizia dei pregiudizi e di tante tradizioni, mi accorsi prestissimo di quanta potenza di dispetto avesse la logica, e divenne per me una specie di rivincita usare ragionamenti logici per umiliare le convinzioni dei miei coetanei e per spaventare gli adulti. Pur non avendone alcun beneficio, anzi, ricavandone spesso dolorose conseguenze, mi dilettavo a frustare con la mia logica infantile, tutte quelle convinzioni che mi facevano soffrire. E ne ricavavo grande godimento.
Mi sentivo isolata dai miei coetanei anche perché, essendo di famiglia non religiosa, non avevo dimestichezza con le pratiche religiose e non le capivo. La domenica, quando loro andavano a dottrina, io mi sentivo diversa e, poiché alle mie domande si rispondeva sempre di non occuparmi di quei problemi, io cercavo di scoprire da me quello che desideravo sapere. 
Seppi così dagli altri bambini l’esistenza dei comandamenti, che mi parvero ben strani e quando a scuola ci portavano in chiesa, io mi inginocchiavo e fingevo di pregare con tale fervore che invariabilmente la maestra mi additava ad esempio. 
Raggiunta l’età in cui tutte le mie compagne avevano celebrato l’eucarestia, io ignoravo completamente se sarebbe toccato anche a me. La maestra se ne preoccupò, interrogò mio padre, interrogò me, interrogò mio fratello. Io risposi che l’avevo già fatta, mi parve le cosa più sbrigativa, ma mio fratello disse il contrario. Quando ci misero a confronto la mia improntitudine e la mia decisione nel dichiarare che era così, fecero passare mio fratello per un bugiardo. 
Cambiai scuola.

Passando al ginnasio divenni pigra nello studio, privilegiando solo i ragionamenti e la logica di certe materie. Tutto quello che era fatica mnemonica mi disgustava e mi assillava ancora il problema della nascita e quello più vago e legato alle credenze religiose dei miei compagni, della morte.

Presi a frequentare una biblioteca vicina alla scuola con una compagna che amava straordinariamente le parole sconce e aveva già esaurito quel poco che in proposito può suggerire il vocabolario. Passavamo così interi pomeriggi, lei a copiare sentenze oscene, o che le apparivano tali, ed io a prendere, esitante e piena di curiosità timorosa, i primi contatti con la filosofia.

Senza alcuna guida e senza sapere da dove cominciare e come andare avanti, mi lessi a 12 anni tutto Kant, copiandone coscienziosamente tutti i passi che mi pareva gettassero uno spiraglio di luce nella mia ignoranza, e rigettando dopo qualche sforzo tutto ciò, ed era molto, che non mi riusciva di capire. Le letture intanto aumentavano vertiginosamente.

La letteratura classica russa fu il mio alimento principale di quegli anni e ci vivevo così intensamente da mettere in disparte qualsiasi altra cosa. Non avevo risolto uno dei miei problemi, ma avevo trovato gente che ritenevo simile a me, e questo mi dava un’ebrezza particolare. Mi dicevo:” Hai visto che c’erano i tuoi? “ Una sorta di misticismo alla Tolstoi mi aiutava a darmi certe risposte e a tenere una determinata linea di condotta.

Cominciai a tenere un diario nell’intento di perfezionarmi, con una sorta di essere ideale a cui avrei dovuto conformarmi e che era un misto di Gesù Cristo, di cui avevo letto la vita di Renan, di Ghandi, che mi appariva allora come il più grande eroe vivente, e di Garibaldi, che sognavo spesso di emulare nelle imprese gloriose a difesa dell’indipendenza dei popoli.

Questi esseri ideali presenziavano ogni giorno alle mie azioni, con loro parlavo, ridevo, discutevo, sollevando lo stupore di quanti venivano casualmente ad essere testimoni del mio atteggiamento che, sono convinta, doveva sembrare assai bizzarro.

Il mio sviluppo intellettuale non sopravanzava lo sviluppo fisico. Già dai dieci anni con un misto di timore e di fatalismo, ero consapevole dei cambiamenti che si andavano operando nel mio corpo. Cambiamenti che si manifestavano non solo nelle strutture, ma anche in smanie, in dinamismo, in fantasie amorose. I miei primi godimenti mi vennero da immagini. Stavo sfogliando un libro di illustrazioni, quando improvvisamente mi sentii il sangue in ebollizione. Di fronte a me c’era una delle tante fotografie di statue celebri: “ Il ratto delle sabine”, certo non particolarmente erotica. Eppure, l’effetto che mi fece allora fu così violento che ancora oggi lo ricordo in tutti i suoi particolari e, probabilmente, non lo dimenticherò mai. Mi raggomitolai, ascoltando ciò che avveniva in me con una gioia nuova, profonda, estenuante.

Questa gioia mi sembrava far parte così del gioco misterioso e amico della natura che non mi sfiorò neppure lontanamente in quel momento l’idea della “colpa”. Solo più tardi, avendo udito compagne di scuola parlare della cosa con un’aria di mistero peccaminoso, mi fermai a pensare che cosa era dunque questa colpa e mi chiesi se il non averne parlato con alcuno fosse proprio questo un segno di colpa, invece che, come avevo ritenuto, il convincimento dell’inutilità di far partecipi gli altri, sempre lontani, di questa mia gioia segreta. Ma non con tutti avevo taciuto, solo con quelli che giudicavo appartenere ad un altro mondo, nemico.

Ne parlavo invece assai spesso nei miei colloqui serali sotto le stelle, circondata dal silenzio amico della campagna. Mi incuriosiva però molto il senso di colpevolezza che avevano tutte le compagne quando si sussurravano confidenze che riguardavano il loro sesso e solo un invincibile senso di repulsione e di timore di essere presa in giro mi tratteneva dal chiedere spiegazioni.

Le mie scoperte in questo campo erano andate molto innanzi, favorite dalle letture senza alcun controllo che io facevo. Ma, nonostante avessi letto quantità si scene amorose, di baci e di tenerezze, tuttavia non ero ancora riuscita a darmi una spiegazione convincente del fenomeno: il meccanismo della nascita l’avevo appreso con orrore, misto a spavento e ribellione, ma anche con una certa incredulità.

Quando sentivo le compagne di scuola parlare della “cosa”, con aria di mistero peccaminoso, intuivo che era meglio non parlarne con gli “altri”.

Ne parlavo invece, assai spesso,  nei miei colloqui serali sotto le stelle, circondata dal silenzio amico e animato della campagna. Mi incuriosiva, però, l’atteggiamento colpevole che tutte assumevano quando si sussurravano confidenze che riguardavano il loro sesso, e solo un invincibile senso di repulsione, e di timore di essere presa in giro, mi trattenevano dal chiedere spiegazioni.

Le mie scoperte  in questo campo erano aumentate, favorite dalle letture senza controllo che facevo.

Ma, nonostante avessi letto una quantità di scene amorose, di baci e tenerezze, non ero tuttavia, riuscite a darmi una spiegazione convincente sul fenomeno concezione, mentre sulla nascita avevo appreso con orrore, spavento, ribellione, e una certa incredulità, come si svolgevano le cose.

La spiegazione mi fu data all’improvviso una sera in cui, oziando sul parapetto di un ruscello con una compagna di scuola, mi azzardai a chiederle se ne sapeva qualcosa. Lei mi rispose compiaciuta che sapeva tutto e molto crudamente mi spiegò il fenomeno, illustrandolo con disegni che faceva sul terreno, con un bastoncino che teneva negligentemente in mano. Io stetti zitta e cercai di congedarla al più presto per poter pensare all’inaudita cosa che mi aveva detto. Nel cumulo di sentimenti diversi e vivissimi ricordo che dominava un acuto senso di umiliazione e di vergogna. Ritenevo di aver fatto dei passi avanti rispetto alla bambina che si sentiva inferiore e umiliata. Questa cosa mi ripiombò in quel disagio assai più acutamente. Provai timidamente e con sforzo ad immaginarmi nei panni di chi subisse il trattamento descrittomi, e la mente si rifiutava di parteciparvi; solo un lontano presagio di sensazioni torbide ed acute che mi si promettevano confusamente, mi attraevano, ma era un’attrazione simile a quella che mi prendeva quando, avendo in mano qualcosa di fragile e prezioso, immaginavo di lasciarlo cadere a terra, pregustandone lo sfacelo. Tutte le mie convinzioni sulla decenza e sull’onore, inculcatemi come basi di una condotta onesta e normale, venivano offese da queste nuove conoscenze e, siccome mi avvedevo dell’assurdità di considerare tutte le donne che concepivano e generavano figli come esseri indecenti, immorali, spudorate e disonorate, mi venne da pensare che mi ero fino da allora sbagliata e che tutto ciò che mi era stato insegnato non riguardava la decenza e l’onore, ma oscuri motivi che non riuscivo a identificare, avevano contribuito a trarmi in inganno.

Nonostante questi ragionamenti, non riuscii a superare il il vivo senso di orrore e cercai di evitare ogni discorso sull’argomento. Mi buttai di nuovo avidamente nella lettura, cercando qualcosa che potesse darmi una spiegazione. L’uomo mi appariva come un essere assai lontano, con sentimenti e ragioni profondamente diversi dai miei. Avevo presenti le crudeli gioie della violenza sugli animali dei maschi della mia infanzia, il disprezzo di mio fratello, la distanza enorme che percepivo fra me e mio padre e ogni intrusione da parte loro nel mio mondo mi pareva un’inaccettabile impudenza. Stavo ormai per uscire  definitivamente dall’ infanzia

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