
VELIA SACCHI
"Io non sto a guardare"
Vita, opere e memorie di una donna del XX secolo

VECCHIAIA
Agosto- settembre 1995
Ormai non vedo quasi più. E la riflessione si fa più pacata e imperiosa.
Gli sbagli: queste pietre miliari del nostro passato? Solo loro, gli sbagli, indicano la strada giusta, quella dell’armoniosa confluenza.
Il mio errore più grande fra i tanti, che costellano una lunga esistenza, fu quello di credere che per affermare la libertà e la giustizia, di cui sentivo da sempre un famelico bisogno, fosse possibile prendere la strada più corta: quella dell’autoritarismo. Se noi, che vogliamo il meglio per l’umanità, mi dicevo, saremo forti e lo imporremo agli altri, sarà un guadagno per tutti.
E non mi avvedevo, e per trent’anni non mi avvidi, tranne qualche sospetto, che la strada, che sembrava una scorciatoia portava dritto da un’altra parte, proprio dalla parte opposta alla libertà di cui, insieme a molti altri, sentivo un così acuto bisogno.
Naturalmente, la consapevolezza di questo errore venne poco a poco, attraverso esperienze più o meno drammatiche, e man mano che l’illusione di poter imporre il giusto con la forza svaniva, cresceva la necessità di usare altri mezzi, che avessero già in sé libertà e giustizia, cioè i mezzi che prefigurano il fine e non quelli che vengono giustificati dal fine stesso. Ma è stato un lungo e accidentato cammino.
Solo nel ’75 arrivai ad una vera consapevolezza di questo e cercai, molto debolmente, di applicarlo alla vita pratica.
Con scarso successo. Perché in tutti quegli anni di militanza in un partito dai nobili fini, che giustificavano troppo spesso mezzi ignobili, una rete fittissima di rapporti d’affetto, di intrecci amorosi, di battaglie condotte fuori e dentro di me, una specie di debolezza, di esaurimento delle energie si impossessò di me.
Ho cercato per tanto tempo le similitudini ed ora sono le differenze che mi attraggono. Forse perché ho bisogno di verifiche, forse perché è nelle differenze che posso trovare la somiglianza, quella che mi è sempre sfuggita.
Parlando di qualcuno che ha una doppia vita, ci si vanta di averne una sola. Mi sembra un’affermazione assolutamente campata in aria! Una persona normale ha sempre più di due vite. E anche triple, quadruple. I rapporti non si somigliano mai fra di loro. A volte è proprio come l’incontro di due pianeti diversi, e le reazioni e le azioni che si esternano, sono inevitabilmente diverse. Che razza di armonia, o semplicemente di conoscenza, ci sarebbe, se si usasse sempre uno stesso e monocorde comportamento?
La constatazione più importante che ho fatto in questi ultimi tempi è che “la disperazione era alimentata dalla speranza”! Una speranza nascosta, travestita, avviluppata in molteplici ragioni.
La pace, la sola pace, che può dare la lucidità, l’ho avuta il giorno in cui mi sono resa conto che non c’era speranza, là dove l’avevo posta.
E’ stato un avvenimento storico, pari a quello della scoperta dell’inesistenza di Dio.
Insieme ad un dolore profondo e vasto, una grande calma, e, dalla lucida constatazione, un’altra speranza che rinasce, fondata su ciò che ora mi appare come la non-speranza, l’analisi spietata dei fatti.
Si dice che le leggi non precedono il costume, ma lo seguono. A volte, con notevole ritardo. Mi sembra vero.
Eppure, il costume è un’interiorizzazione delle istituzioni, e le istituzioni sono sostenute dalle leggi. Allora, bisogna dire che il costume è un’interiorizzazione di leggi passate e il suo rapporto con le istituzioni è quanto mai dialettico.
E’ vero, cioè anche il contrario: che nuove leggi possono mutare il costume, che era sopravvissuto come vuota forma di un’interiorizzazione, ormai superata, in condizioni di vita mutate, che lo rendono senza senso.